Il gender gap è una questione strutturale della maggior parte delle società. L'argomentazione implica una posizione disuguale tra uomo e donna, socialmente costruita e indirettamente acquisita durante il corso degli anni: l’uomo viene percepito come protagonista e dominatore sicuro e la donna come spettatrice e presenza insicura. Tale insicurezza caratterizza il genere femminile indipendentemente dalla razza, dalla religione, dall’etnia e indirettamente istruisce le donne ad una cultura di evitamento del pericolo. Vi è la necessità di sottolineare, dunque, l’invisibile questione che le caratterizza nel percorso d'asilo. La ricerca, infatti, vuole far luce sulla posizione disuguale e precaria della donna anche nel contesto dell’immigrazione forzata e sul carattere distintivo mediante cui la società d’accoglienza la stigmatizza – come vittima e appartenente al gruppo sociale vulnerabile – privandola forse, e almeno inizialmente, del potere di agency che vorrebbe continuare a detenere. Seppure ormai da anni l’Italia sia diventata un paese di immigrazione, la questione viene percepita come “emergenziale” e pericolosa. Le donne, infatti, per non essere stigmatizzate con accezione negativa - come “prostitute” -, devono soccombere alla percezione sociale che le valuta vittime passive e impotenti. Ci si chiede allora: in che termini il territorio di accoglienza permette una (ri)costruzione identitaria delle richiedenti asilo e delle rifugiate? Per territorio di accoglienza non si intende semplicemente il territorio italiano, ma la specifica realtà all’interno della quale tali donne iniziano a vivere - in tal caso, Venezia. Per (ri)costruzione identitaria, inoltre, si sottintendono due percezioni fondamentali: la prima riguarda l’utilizzo della parola “(ri)costruzione”. Con la stessa, si presume che le donne richiedenti asilo avessero, chiaramente, costruito la propria identità secondo l’influenza delle relazioni familiari, sociali e politiche del luogo di appartenenza, ma, se così è, i luoghi di guerra, le discriminazioni di genere, lo sfruttamento da cui provengono non possono aver contribuito ad una costruzione identitaria positiva. Una delle motivazioni che potrebbe fungere da fattore di spinta per il viaggio successivamente intrapreso è l’intenzione di cambiare la propria identità sia a livello endo-percettivo sia a livello eso-percettivo. La seconda, invece, riguarda la parte costitutiva dell’identità, così come la si vuole intendere nello scritto: un connubio tra sfera familiare, sociale (che vede l’effettiva integrazione socioculturale della donna e la sua percezione di sicurezza rispetto al territorio che la circonda), lavorativa e politica. Per rispondere alla domanda di ricerca, verrà utilizzata una metodologia quanti-qualitativa: i dati quantitativi sul Sistema d'Accoglienza (Europeo e Italiano), sui flussi migratori in prospettiva di genere, nonché sui progetti attivi nel territorio (italiano e veneziano nello specifico), verranno avvalorati ed integrati dalle interviste qualitative dirette alle donne richiedenti asilo e rifugiate e ai testimoni privilegiati, oltre che da un'analisi dettagliata delle politiche migratorie e di integrazione sociale presenti nel territorio. L’obiettivo di advocacy della ricerca è chiaro e se le politiche locali di integrazione sociale e i servizi territoriali messi a disposizione per le donne in oggetto non sono efficaci e virtuosi, le stesse non potranno (ri)costruire un’identità differente rispetto a quella negativa già costruita nella loro realtà di appartenenza.
Che tipo di donna? La (ri)costruzione identitaria delle richiedenti asilo e delle rifugiate. Il caso di Venezia
Alioto, Brigitta Pia
2021/2022
Abstract
Il gender gap è una questione strutturale della maggior parte delle società. L'argomentazione implica una posizione disuguale tra uomo e donna, socialmente costruita e indirettamente acquisita durante il corso degli anni: l’uomo viene percepito come protagonista e dominatore sicuro e la donna come spettatrice e presenza insicura. Tale insicurezza caratterizza il genere femminile indipendentemente dalla razza, dalla religione, dall’etnia e indirettamente istruisce le donne ad una cultura di evitamento del pericolo. Vi è la necessità di sottolineare, dunque, l’invisibile questione che le caratterizza nel percorso d'asilo. La ricerca, infatti, vuole far luce sulla posizione disuguale e precaria della donna anche nel contesto dell’immigrazione forzata e sul carattere distintivo mediante cui la società d’accoglienza la stigmatizza – come vittima e appartenente al gruppo sociale vulnerabile – privandola forse, e almeno inizialmente, del potere di agency che vorrebbe continuare a detenere. Seppure ormai da anni l’Italia sia diventata un paese di immigrazione, la questione viene percepita come “emergenziale” e pericolosa. Le donne, infatti, per non essere stigmatizzate con accezione negativa - come “prostitute” -, devono soccombere alla percezione sociale che le valuta vittime passive e impotenti. Ci si chiede allora: in che termini il territorio di accoglienza permette una (ri)costruzione identitaria delle richiedenti asilo e delle rifugiate? Per territorio di accoglienza non si intende semplicemente il territorio italiano, ma la specifica realtà all’interno della quale tali donne iniziano a vivere - in tal caso, Venezia. Per (ri)costruzione identitaria, inoltre, si sottintendono due percezioni fondamentali: la prima riguarda l’utilizzo della parola “(ri)costruzione”. Con la stessa, si presume che le donne richiedenti asilo avessero, chiaramente, costruito la propria identità secondo l’influenza delle relazioni familiari, sociali e politiche del luogo di appartenenza, ma, se così è, i luoghi di guerra, le discriminazioni di genere, lo sfruttamento da cui provengono non possono aver contribuito ad una costruzione identitaria positiva. Una delle motivazioni che potrebbe fungere da fattore di spinta per il viaggio successivamente intrapreso è l’intenzione di cambiare la propria identità sia a livello endo-percettivo sia a livello eso-percettivo. La seconda, invece, riguarda la parte costitutiva dell’identità, così come la si vuole intendere nello scritto: un connubio tra sfera familiare, sociale (che vede l’effettiva integrazione socioculturale della donna e la sua percezione di sicurezza rispetto al territorio che la circonda), lavorativa e politica. Per rispondere alla domanda di ricerca, verrà utilizzata una metodologia quanti-qualitativa: i dati quantitativi sul Sistema d'Accoglienza (Europeo e Italiano), sui flussi migratori in prospettiva di genere, nonché sui progetti attivi nel territorio (italiano e veneziano nello specifico), verranno avvalorati ed integrati dalle interviste qualitative dirette alle donne richiedenti asilo e rifugiate e ai testimoni privilegiati, oltre che da un'analisi dettagliata delle politiche migratorie e di integrazione sociale presenti nel territorio. L’obiettivo di advocacy della ricerca è chiaro e se le politiche locali di integrazione sociale e i servizi territoriali messi a disposizione per le donne in oggetto non sono efficaci e virtuosi, le stesse non potranno (ri)costruire un’identità differente rispetto a quella negativa già costruita nella loro realtà di appartenenza.File | Dimensione | Formato | |
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